02 Maggio 2024, 17:59
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Gianni Morandi fa un bilancio della sua vita e della sua lunghissima e fortunata carriera in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”. L’amatissimo cantante bolognese a dicembre spegnerà 80 candeline, ma il tempo per lui sembra non passare. Partendo dall’infanzia condivide il suo primo ricordo da bambino. “I veglioni di Capodanno del dopoguerra. La sera i grandi ballavano, al mattino noi piccoli passavamo nelle case a fare gli auguri e ricevere cinque lire di mancia – ricorda -. Mio papà faceva il ciabattino. Io ho la quinta elementare. Non c’erano scuole medie a Monghidoro, ma il babbo disse: ti insegno io, se no diventi un ligirot, un teppistello. Il pomeriggio lavoravo in bottega, e il mattino mi dava i compiti. Le letture. A voce alta”. “Lui era un comunista convinto – spiega – mi dava da leggere i giornali del partito, che lui diffondeva: Rinascita, La Lotta, Avanguardia, Vie Nuove, Noi donne. E l’Unità: almeno cinque metri di lettura al giorno. Poi i libri: Il capitale di Marx, Un passo avanti e due indietro di Lenin, Storia del partito comunista dell’Urss di Stalin… Non ci capivo niente”.
“Il babbo – continua – era un uomo severo, ma giusto. Una volta litigai con il figlio di un democristiano, lo bagnai tutto, e lui mi picchiò con lo sparadello una corda che serve per legare la suola alla tomaia. Il babbo lo teneva a mollo per averlo sempre umido: sulle gambe nude era dolorosissimo. Però lui non voleva che litigassi con i figli degli avversari politici. Con il macellaio missino neppure si salutavano. A fare la spesa andavo io: un etto di macinato e sette etti di pasta. Con i soldi contati: 275 lire”.
Gianni Morandi ricorda anche la mamma Clara che faceva la lavandaia. “La ricordo d’inverno spaccare il ghiaccio della pozza del Comune, per lavare gli ‘american stracci’- aggiunge – i jeans e i giubbotti che poi vendeva al mercato di Bologna. Leggeva ‘Grand Hotel’, ‘Sogno’ e ‘Luna Park’ di nascosto dal babbo, che non voleva”. L’incontro con la musica ad appena 13 anni. “Nella casa del popolo di Alfonsine di Ravenna – ricorda ancora – Alle pareti c’erano quattro ritratti: Gramsci, Togliatti, Marx e Stalin. Stalin poi lo tolsero. A Reggio in un concorso mi trovai con due ragazzine: erano Iva Zanicchi e Orietta Berti. Andavo a Bologna dalla maestra Scaglioni. Partivo giovedì con la corriera, tutto contento. Mi davano 500 lire a concerto, più la cena. La domenica cantavo sia il pomeriggio sia la sera. Il giorno più brutto era il lunedì, quando tornavo a casa. Andavo in banca a versare 2 mila lire, sul libretto al portatore che mi aveva aperto il babbo, che da me non voleva soldi”.
Gianni Morandi svela che a lanciarlo nel mondo della musica è stato un arbitro di boxe. “Si chiamava Paolo Lionetti, e aveva arbitrato Sugar Ray Robinson. Cantavo a Bellaria. Ad ascoltarmi c’era Raffaella Carrà, che veniva a trovare la nonna: aveva 19 anni, uno più di me, ed era splendida. E c’era Lionetti. Voleva fare di me un pugile, ma al primo pugno capii che non ero adatto. ‘Allora proveremo con la musica’ disse. Così, in alternativa. Lionetti possedeva venti juke-box. Mi portò alla Casa del disco di Bologna, dove si approvvigionava, e proclamò: questo ragazzo canta bene! Ci guardarono come per dire: e a noi cosa importa? Poi però ci consigliarono di andare a Roma, alla Rca”. Il primo provino non andò bene. “Avevo tre canzoni – racconta -. ‘Il cane di stoffa’ di Pino Donaggio, ‘Non arrossire’ di Gaber, ‘Non esiste l’amor’ di Celentano. Mi dissero: le faremo sapere; e sparirono”. In futuro, per la Rca Gianni Morandi ha inciso la canzone “Andavo a cento all’ora”.
“Il ritornello l’aveva scritto un minatore emigrato in Belgio – svela -. ‘Andavo a cento all’ora per trovar la bimba mia, tantatanta…’. Però c’era solo quello. Il resto lo scrisse Franco Migliacci, l’autore di ‘Volare’ con Modugno. È una storia incredibile, che dimostra quanto sono fortunato. I nastri Geloso con i provini erano accatastati in alto, ne cade uno, si attorciglia attorno alle gambe di Migliacci, cui pare un segno del destino. Lo ascolta. ‘Di chi è questa voce?’ chiede. ‘Di quel ragazzino tutto storto di Bologna…’. ‘Facciamola cantare a lui’.
Da lì inizia l’ascesa del ragazzino di Monghidoro: “Non me ne resi neppure conto. Negli Anni 60 non potevo più andare in giro, si formavano blocchi stradali. Una volta al cinema Metropolitan di Roma fui riconosciuto, si accesero le luci, interruppero il film. I dischi venivano presentati appositamente alla Standa di Napoli; ogni volta c’erano venti milioni di danni, e i giornali titolavano: i fan di Morandi devastano la Standa”. Il brano “In ginocchio da te” è stato arrangiato da Ennio Morricone. “Il capo della Rca, Melis, non voleva cha la cantassi io- ricorda – ‘Morandi può fare solo le canzoni da adolescente…’. Migliacci insistette. A Morricone fece rifare l’arrangiamento tre volte, Ennio era furibondo, alla terza versione sbottò: ‘E tenetevi questa stron*ata!’. Vendette un milione e mezzo di dischi, vinse il Cantagiro, divenne un film…”.
La carriera di Gianni Morandi è ormai lanciatissima e in quel periodo arriva anche il cinema, con “I Musicarelli”. “Mi presentarono l’attrice che mi avrebbe affiancato: era Laura Efrikian. Ci innamorammo – ricorda – Adoravo il cinema da quando vendevo caramelle e semi di zucca nelle sale, e sbirciavo gli attori americani. Avevo anche cantato una canzone orribile, Penelope, in un film con Totò, Totò sexy. Poi arrivò Bellocchio, mi mostrò una serie di disegni fatti da lui, con tutte le scene del film, fino all’ultima, quando il protagonista ammazza la madre. Volevo accettare, ma Migliacci me lo impedì: ‘Tu sei matto! Gianni Morandi che ammazza la mamma?!’”.
Poi arriva anche l’incontro con Adriano Celentano. “Era il mio mito – ammette – e lo è ancora adesso. Ci sarei andato, ma mi sconsigliarono: nel Clan c’era un solo capo, lui. Ci riprovò anni dopo. Mi convocò a casa a Milano, c’era anche Mina, e disse: ‘Facciamo un nuovo Clan. Come in America: Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis. Così Sanremo, Cantagiro, Canzonissima li organizziamo noi. E abbiamo anche la ragazza del Clan’ disse indicando Mina, che era libera. Io però ero sotto contratto con la Rca. Era una grande idea, ma non se ne fece nulla”. Gianni Morandi ricorda l’incontro e la grande amicizia che lo ha legato al grande Lucio Dalla. “Nel 1963, al teatro greco di Taormina. C’era questo ragazzo con il barbone che suonava il clarinetto nei Flippers. Parliamo e scopro che è tifoso del Bologna, come me. Diventiamo amici, giriamo l’Italia per vedere le partite: una domenica al Dall’Ara in curva, quella dopo a Roma, Milano, Bergamo… Finisce che vinciamo lo scudetto, nello spareggio con la Grande Inter”.
“Dalla innamorato di me? Non la metterei così. La nostra è stata un’amicizia fraterna – precisa – come si può essere amici con un genio. Fu lui a farmi cambiare modo di cantare: ‘Guarda che non c’è solo Claudio Villa, c’è anche Ray Charles…’. Il suo alter ego era Tobia, che ora ha novant’anni, e sbraitava: ‘Volete fare tutti i cantanti! Meno chitarre, più zappe!’”.
Uno degli eventi che ha segnato la carriera di Gianni Morandi è stata la partenza per la leva, proprio all’apice del successo. “Per due anni mi avevano fatto rivedibile per insufficienza toracica, ma nel febbraio 1967 dovetti arruolarmi: lo Stato non poteva favorire un cantante. Fu un bel periodo: in caserma finalmente stavo con i miei coetanei. Un po’ soffrivo: quell’anno esplosero Al Bano con ‘Nel sole’, Little Tony con ‘Cuore matto’, Fausto Leali con ‘A chi’; e io a fare marce, flessioni, guardie. Ho corso una decina di maratone. Per l’ottantesimo compleanno ho promesso a Prodi che faremo insieme la maratona di New York. Per me sarà la quarta”. Nel 1966 arriva il brano “C’era un ragazzo”, una denuncia contro la guerra del Vietnam.
“Migliacci era contrario – rivela – ‘Tu sei quello di In ginocchio da te, cosa c’entri con la guerra…’. Quella volta mi impuntai. Nell’Hit Parade era prima, ma in tv non si poteva suonare. La censura impose di sostituire ‘adesso è morto nel Vietnam’ con ‘adesso è morto, ta-ta-ta’. Finalmente potei cantarla, e non dissi ta-ta-ta, dissi Vietnam. Fu uno scandalo, ci furono interrogazioni parlamentari”.
In pochi lo sanno ma Gianni Morandi è stato il primo produttore di Renato Zero. “Il merito fu di Migliacci. Lui e io avevamo un’etichetta discografica, la MiMo: Mo stava per Modugno, cui subentrai io, senza cambiare il nome. Renato lo prendevano tutti in giro, magro magro nelle sue tutine aderenti, i capelli lunghissimi sulle spalle; ma si capiva che era geniale. Nel 1971 cantai a Roma al teatro Brancaccio: i miei coristi erano Renato Zero, Mia Martini e Loredana Bertè. Purtroppo non si trova più la foto”. Poi il 1971 è l’anno in cui arriva la prima contestazione nel corso di una manifestazione al Vigorelli. “Mi fece molto male – ammette -. Dovevamo suonare in tanti, Milva, Lucio, io, prima dei Led Zeppelin. A Ezio Radaelli, l’organizzatore, l’avevo chiesto: sei sicuro che sia una buona idea? E lui: fidati, sarà un trionfo! Salgo sul palco, e si alza un boato. Mi giro verso Radaelli, che mi sorride: hai visto? Solo che era un boato al contrario. Guardo il pubblico e capisco che ero diventato il simbolo di quello che detestavano. Esattamente il tipo di cantante che non volevano più”.
“Provai a conquistarli con ‘C’era un ragazzo’ – ricorda – in fondo era una canzone di protesta. Mi subissarono di fischi, dovetti lasciarla a metà e andarmene. Fu una sberla terribile. Pensai che aveva ragione mio padre, quando mi diceva: tutto questo finirà presto. Non avevo ancora 27 anni, e sembrava già tutto finito”.
Sembrava l’inizio della fine della sua carriera che ebbe uno stallo di diversi anni. “C’è sempre un altro treno che passa. E io, come le ho detto, sono sempre stato fortunato – ammette -. Solo che quel treno dovetti aspettarlo per anni. Anni in cui non mi funzionava niente. Mi ritrovai le giornate vuote. Mi ero separato da Laura, lei era andata a Roma, i nostri figli Marianna e Marco rimasero con me. Li portavo a scuola, e non avevo niente da fare. Decisi di iscrivermi al conservatorio. Facevo musica da sempre, ma non l’avevo mai studiata. Però temevo che, con tutti quei ragazzini, non avrebbero mai preso uno come me. Così feci domanda per la classe di contrabbasso. Mi è servito tanto”.
“Ero incolto, e forse era stata questa la causa della rottura con Laura – rivela ancora – lei veniva dal Piccolo Teatro, io da una bottega di ciabattino. Suo padre musicologo mi aveva regalato il disco della Sagra della Primavera di Stravinskij, io lo ascoltai 25 secondi e dissi: cos’è ’sta roba? Al conservatorio ho scoperto Beethoven e Shostakovic, ci facevano cantare ‘Il Clavicembalo ben temperato’ di Bach…”.
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Nel ’76 torna il successo con il brano “Sei forte papà”. “Tutti puntavano sui bambini. Mal aveva fatto ‘Furia cavallo del West’, Bruno Lauzi ‘Johnny Bassotto’; io feci ‘l’arca di Noè’. Vendetti un milione di dischi; ma alla lunga fu un ostacolo. Ero diventato il cantante dei piccoli”, spiega. “Un giorno mi chiama Mogol, che aveva rotto con Battisti – ricorda ancora -. Penso voglia propormi una canzone. Invece mi dice: ‘Tu sai giocare a pallone? Voglio mettere su una squadretta di cantanti, per ora siamo io e il Guardiano del Faro’. Rispondo di sì, coinvolgo Riccardo Fogli, Pupo, Umberto Tozzi. Chiedevamo ai parroci i campetti per allenarci. ‘Un giorno riempiremo lo stadio Olimpico’ disse Mogol. In effetti, con la Nazionale cantanti, è successo. Mogol voleva parlare solo di calcio. Mi fece anche presidente della squadra, ma si arrabbiava perché lo mettevo in panchina, ‘io corro più degli altri!’ diceva. Un giorno mi esasperò al punto che in ascensore cominciai a urlare, stavo per mettergli le mani addosso, per fortuna l’ascensore si aprì e Mogol uscì gridando: ‘Salvatemi dal pazzo di Monghidoro!’”.
“Secondo Mogol dovevo cantare in modo diverso – racconta Gianni Morandi – come se stessi parlando, tipo i crooner americani. Mi sottopose all’esercizio che infliggeva ai suoi allievi: cantare Dylan, Sting e Tracy Chapman, ma senza interpretarli, proprio imitandoli. E io eseguii: ‘How many roads must a man walk down…’ (ora Morandi diventa Bob Dylan). Finalmente Mogol si decise a farmi incidere un disco: ‘La gente penserà: chi è questo grande cantante? Certo, se si accorgono che sei Gianni Morandi, siamo rovinati’. Mi gelava con queste battute feroci; però ci volevamo bene”. “Il capo della Rca, che era sempre Melis, si oppose – ricorda – voleva dare la canzone a Gabriella Ferri. Mogol rispose che l’aveva scritta per me, ma Melis era implacabile: ‘Non stare lì a perdere tempo con Morandi…’. Invece produssero il mio primo album, fino ad allora avevo fatto solo 45 giri. Vendetti 17 mila copie: pochine. Ma era il primo passo verso la risalita”.
Poi arriva “Uno su mille”: “‘Se sei a terra non strisciare mai, se ti diranno ‘sei finito’, non ci credere’. Anche qui c’era una nota autobiografica. Era una canzone inserita in una serie tv di successo, ‘Voglia di cantare’. È diventata un inno di chi non si arrende. Perché ognuno pensa di essere quell’uno su mille, e non gli altri 999”. Nel 1986 vince Sanremo, in trio con Tozzi e Ruggeri e nell’88 inizia un tour con Lucio Dalla. “Lucio me lo proponeva da tempo – confida – ma avevo sempre detto di no: lui era il numero uno della musica italiana, io un artista scomparso. Dissi di sì quando sentii che non sarei stato un peso per lui”.
Lucio Dalla e Franco Battiato parteciparono al suo Sanremo del 2022. Nel 2011 aveva vinto Roberto Vecchioni. Gianni Morandi torna sul palco dell’Ariston nel 2022 cantando una canzone di Jovanotti. “E’ nato tutto dal mio incidente. Era l’anno del Covid. Avevo raccolto degli sterpi da bruciare in giardino, ma il forcale rimase incastrato nei rovi; feci forza, mi rovesciai su me stesso, caddi sulle braci. Pensavo di cavarmela con una crema: ventisette giorni di ospedale, tre interventi. Mi telefona Jovanotti: ‘Gianni come stai? Forza, che quando esci ti scrivo una canzone!’. Mi piace la sua positività, anche adesso che è caduto e si è rotto il femore reagisce con il sorriso. In lui rivedo qualcosa di me”. Gianni Morandi da alcuni anni è molto attivo anche sui social.
La sua ultima foto lo ritrae con una vistosa benda su un occhio. “Nulla di grave, un intervento al cristallino”, rassicura. E parlando di politica ammette. “Sono un uomo di sinistra, voto Pd. Ho fiducia in Elly Schlein, può fare bene. Anche la Meloni è una donna forte, mi fa piacere vedere donne al vertice. Certo, una volta c’era Berlinguer. Conoscerlo mi emozionò molto. Berlusconi? Un grande seduttore. Ti ubriacava di parole. Quando andavi a trovarlo ad Arcore ti accompagnava alla macchina e restava lì, con il braccio alzato in segno di saluto, finché la macchina restava in vista. Berlusconi non l’ho mai votato, ma mi era simpatico”. Sempre al suo fianco la sua seconda moglie, Anna Dan. “L’ho conosciuta trent’anni fa, a casa di un musicista bolognese amico di Lucio, Mauro Malavasi. Le chiesi il numero di telefono, e lei me lo diede: sbagliato. Ho dovuto inseguirla a lungo…”.
Gianni Morandi ha cinque nipoti, due sono frutto dell’amore tra la figlia Marianna e Biagio Antonacci. “Biagio è un bravo artista e una brava persona; ma suo figlio Paolo, mio nipote, come autore è persino meglio, ha già scritto dieci canzoni di successo”, racconta. Il suo rapporto con Dio e la religione ha radici lontanissime: “Prego. La sera recito le preghiere che mi ha insegnato mia nonna paterna. Ogni giovedì nonna Maria veniva a piedi da Ca’ di Morandi, la sua frazione, al mercato di Monghidoro, e mi regalava ‘La dottrina cristiana’. Il babbo la vedeva e me la strappava. Lei il giovedì dopo me la riportava. Mio padre morì a 49 anni, e lasciò scritto che voleva una tomba semplice, senza nessuna croce. La nonna gliela fece mettere. Di marmo’. Io poi l’ho tolta. Mio padre voleva così”.
“Il mio rapporto con la morte? Temo il morire. La malattia, la sofferenza. Però so già quale canzone passerà in tv il giorno della mia morte: ‘Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte’ per gli italiani quella resta la canzone che mi rappresenta di più. Perché si canta sorridendo”, conclude.
Pubblicato il
02 Maggio 2024, 17:59