06 Giugno 2022, 12:43
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Gabriele Muccino ripercorre la sua vita e la sua carriera in un’intervista al “Corriere della Sera”. “L’ultimo bacio”, il suo primo grande successo al cinema, “fu una sorta di tsunami” in grado di trasformare un giovane introverso in una celebrità.
“Ero cresciuto in solitudine e stavo bene da solo – rivela – ma quando ho voluto cercare di misurarmi con il resto della società ho sentito che avevo delle lacune molto grandi, che non avevo idea di come riempire (…) Il cinema mi ha dato la possibilità di esistere, ovvero di portare quello che io sono alla fruizione degli altri. Il tasto più dolente della mia adolescenza era non riuscire a comunicare me stesso: mi impauriva, mi faceva sentire mediocre e profondamente irrisolto. Ho cercato di risolvermi e raccontarmi attraverso il cinema”.
Gabriele Muccino torna indietro con la memoria agli anni trascorsi in America. “Quando ho girato La ricerca della felicità non pensavo di avere la capacità di emozionare una platea così vasta, globale – ammette – Lì è iniziata la mia vita americana: da un lato è stata nutritissima di incontri, sogni, speranze, ambizioni… finché ho avuto vicino Will Smith, mi ha protetto dalle ingerenze degli studios. Poi ho capito che Hollywood è un posto sempre più pieno di gente insicura, che conosce poco il cinema e non sa più cosa fare da quando è arrivata la tv di qualità”. Il regista commenta lo scandalo che ha travolto Will Smith: “Sono rimasto senza parole per giorni. Lui che nella vita si controlla in modo maniacale…Hollywood non lo perdonerà mai, essendo puritana e bigotta in un modo che non possiamo immaginarci. Ha fatto una cosa così sbagliata e così umana, in fondo. Ma in un tempio del politically correct, in cui sono tutti dei robot”.
“La vita che ho condotto in America – per 12 anni era guidata dal business – spiega – incontravi solo chi poteva darti qualcosa, che ti vedeva solo se tu potevi essere interessante da un punto di vista affaristico. Al di fuori di questo, l’amicizia con assenza di interessi in America non l’ho mai conosciuta. Così, quando mi sono ritrovato a casa di Giovanni Veronesi, a Roma, in una serata super allegra, in cui eravamo tutti con le lacrime al viso per le risate, mi sono accorto – ridendo così tanto – che erano anni che non lo facevo. In quel momento ho capito che se era vero, come era vero, che in America avevo smesso di ridere, allora non era il posto dove potevo più stare e sono venuto via. Mi stava uccidendo l’anima, mi stava uccidendo anche la voglia di vivere”.
Gabriele Muccino parla anche dell’allontanamento del fratello Silvio: “Con lui ho vissuto un lutto, un lutto di una persona vivente, che non vedo dal 2007. È stata una esperienza per me aberrante da un punto di vista psicologico: mi ha scarnificato. Rimane una delle cose più incomprensibili, ingiustificabili e forse anche imperdonabili. A un certo punto quando questo lutto si è elaborato, quando ho smesso di soffrire, sono passati ormai 15 anni. Lì ti rendi conto che quella persona non la vuoi più incontrare, non hai più nulla da raccontare perché fondamentalmente non la stimi, non la ammiri e non la conosci più. Se mancano questi tre elementi, il resto cosa è? Forma?”.
“Quando tuo fratello scompare senza neanche dirti perché per una vita intera – aggiunge – il corpo soffre, soffri psicologicamente, ti svegli nel cuore della notte come se ti mancasse l’aria, perché hai voglia di tuo fratello. Era un pezzo di me. Mi ha tolto una parte enorme della mia vita e ora quella parte lì se ne è andata. La nostra difesa naturale nell’elaborazione delle sofferenze fa in modo che si crei uno spessore sulla cicatrice tale da far diventare quella cicatrice insensibile. È lì, la vedi ma è talmente spessa la carne che la riveste che siamo diventati insensibili, a dispetto di quello che vorremmo. Ma è fisiologico difendersi da un dolore così penetrante”.
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06 Giugno 2022, 12:43